Neuromarketing: processi irrazionali nella mente del consumatore

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Vi siete mai chiesti che ruolo hanno pensieri subconsci, emozioni e desideri nelle decisioni di acquisto che effettuiamo ogni giorno? Probabilmente no perché scegliere un oggetto piuttosto che un altro è un processo estremamente automatico e ricorrente che non ci dà modo di riflettere sul motivo per cui il nostro cervello è guidato verso determinate scelte. Ma esiste una disciplina emergente che si occupa di analizzare i processi irrazionali che avvengono nella mente del consumatore. Si chiama neuromarketing ed è un connubio di marketing e scienza, nonché un modo per determinare il successo di un brand sugli altri. Il termine “neuromarketing” è stato coniato nel 2002 da Ale Smidts, professore di Marketing Research alla Rotterdam School of Management, ma ha cominciato a circolare nel 2004, quando il pioniere del marketing Read Montague decise di ripetere lo studio effettuato già nel 1975 da Coca Cola e Pepsi, analizzando questa volta l’attività cerebrale dei soggetti mediante l’fMRI (risonanza magnetica funzionale).

 

In cosa consisteva lo studio? Vennero posizionati dei bicchieri anonimi, uno con Pepsi e uno con Coca Cola, nei supermercati e circa metà del campione analizzato prediligeva la Pepsi. Nella seconda parte dell’esperimento fu detto ai volontari di che bevanda si trattasse: il 75% dichiarò di preferire la Coca Cola. Questo evidenziava un contrasto tra la parte emozionale e la parte razionale dei soggetti, fortemente influenzata da pubblicità, logo, spot televisivi. Inconsciamente preferivano il sapore della Coca Cola perché il brand era a loro più familiare.

A dare una misura corretta e quasi sconvolgente di quello che succede nel cervello del consumatore al momento dell’acquisto, mosso da determinati impulsi sconosciuti, è stato il famoso marketer e speaker danese Martin Lindstrom nel suo libro “Neuromarketing. Attività cerebrale e comportamenti d’acquisto”. Il testo racconta e analizza il più grande studio di neuromarketing mai condotto. 2081 volontari di America, Inghilterra, Germania, Giappone e Cina hanno prestato il proprio cervello a questo esperimento che ha richiesto circa tre anni ed è costato sette milioni di dollari, forniti da otto aziende multinazionali. Si è articolato in diversi esperimenti, ha coinvolto oltre duecento ricercatori, dieci professori e un comitato etico, ed è stato effettuato utilizzando strumenti di avanguardia come la fMRI, risonanza magnetica funzionale, e la SST, una versione avanzata dell’elettroencefalografo. Il primo esperimento riguardava le immagini e le frasi dissuasive presenti sui pacchetti di sigarette. L’obiettivo era verificare se effettivamente questo metodo allontanasse le persone dal fumo e cosa questo significasse a livello di numeri. Vennero coinvolte 32 persone e si scoprì che le etichette non avevano alcun tipo di effetto dissuasivo sui fumatori, anzi, stimolavano un’area del cervello che si attiva quando si desidera intensamente qualcosa. Il secondo esperimento riguardava le pubblicità in “American Idol”, talent show americano. Il programma aveva tre sponsor: Ford Motor Company, Cingular Wirless e Coca Cola, ognuno dei quali aveva speso circa 26 milioni di dollari all’anno. Mentre i prodotti delle ultime due marche venivano costantemente proposti all’interno della show, la Ford appariva soltanto in alcuni intermezzi pubblicitari con spot di circa 30 secondi. Lindstrom voleva capire se queste ultime pubblicità avessero avuto lo stesso impatto delle altre sullo spettatore. I risultati dell’esperimento dimostrarono che la Ford era il logo meno memorizzato, anzi i soggetti addirittura ricordavano maggiormente la pubblicità della Ford prima del programma piuttosto che al termine.

Il terzo esperimento andava a scandagliare la possibilità di influenza sui comportamenti umani dei messaggi subliminali, informazioni che il cervello assimila a livello inconscio. L’oggetto erano, anche questa volta, pubblicità legate a marche di sigarette, ma pubblicità indirette, ovvero di altri prodotti con rimandi a vecchie pubblicità di sigarette. Vennero proposte a 32 fumatori (gli stessi del primo esperimento) e il risultato fu un’attività cerebrale quasi identica sia per le immagini subliminali che per quelle esplicite. Il quarto esperimento fu condotto da due neuroscienziati, il dottor Mario Beauregard e il dottor Vincent Pasquette, e aveva come obiettivo quello di analizzare cosa accade nel nostro cervello quando elabora pensieri e sentimenti di natura religiosa, e se in qualche modo questo possa essere ricollegato anche al branding. La prima parte dell’esperimento dimostrò che, nel cervello umano, si susseguono schemi di attività differenti quando si pensa alla religione o a persone realmente esistenti. Per la seconda parte, invece, si utilizzarono marche come Apple, Guinness, Ferrari e Harley-Davidson e immagini religiose per mettere a confronto le aree del cervello attive. Si scoprì che esiste effettivamente un collegamento tra spiritualità e branding, dal momento che le emozioni provate di fronte a brand noti sono le stesse che si provano davanti a simboli religiosi. Il quinto esperimento riguardò, invece, il rapporto tra immagini e suoni. Ai volontari vennero mostrate immagini, poi fatti ascoltare suoni e infine unite immagini e suoni per determinare cosa funzionasse di più a livello cerebrale. Si scoprì che suoni e immagini, presentati simultaneamente, generavano reazioni maggiormente positive rispetto a quando venivano mostrati isolatamente. L’indice di attenzione e di memoria, infatti, aumentava quando i soggetti associavano un brand o un prodotto al suo relativo suono caratteristico. Il sesto e ultimo esperimento voleva essere una prova della capacità del neuromarketing di predire il successo futuro di un brand. Venne utilizzato un programma intitolato “Quizmania”, molto popolare nel Regno Unito ma non arrivato ancora negli Stati Uniti. L’idea era capire se questo avesse potuto avere successo o meno negli USA. Vennero quindi utilizzati 200 volontari ai quali fu chiesto di guardare tre diversi programmi (“Quizmania”, “The Swan”, “How clean is your house”) e poi di compilare un questionario sulle emozioni provate e su quanto avessero gradito i programmi appena guardati. Analizzando e confrontando i dati, si stabilì che se Quizmania fosse stato mandato in onda in America avrebbe avuto un successo maggiore di “The Swan”, ma minore di “How clean is your house”.

Questo lungo studio raccontato da Lindstrom ha, più in generale, dimostrato come il neuromarketing, se utilizzato nella giusta maniera, possa essere uno strumento davvero utile per molte aziende nel discernimento del successo o del fallimento, presente o futuro, di un brand o di un suo prodotto. Analizzare i comportamenti del consumatore, cercare attraverso immagini, suoni, profumi di catturare la sua attenzione, di “manipolare” il suo cervello, sono indubbiamente una strategia da non sottovalutare nell’ottica dello sviluppo di un piano marketing aziendale davvero completo. E, da parte nostra, di noi consumatori, sapere cosa scatta nei nostri cervelli al momento della scelta di un prodotto o della fidelizzazione nei confronti di un brand, è sicuramente un modo per approcciarsi al mondo degli acquisti in maniera più consapevole, più attenta e più curiosa. E, soprattutto, grazie a Lindstrom ci siamo spiegati il perché di molte pubblicità urlate o di molti negozi invasi di profumo: fare leva sul nostro cervello per indirizzare il potere d’acquisto.

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