Quarant’anni fa a Bologna si indossavano le mascherine. Il caldo era lo stesso che infuoca l’Italia oggi. A cambiare era il contesto. Il perché di quelle mascherine, il perché di quel caldo passano in secondo piano.
Quaranta anni fa, alla stazione di Bologna, ebbe luogo la strage peggiore dal secondo dopoguerra. In quel sabato di orrore, in quel 2 agosto 1980 persero la vita 85 persone e 200 rimasero ferite.
Il contesto
Al liceo non si arriva quasi mai a parlare del periodo storico che intercorre dal secondo dopoguerra agli anni ‘90. Eppure, rappresenta per l’Italia uno dei momenti più intensi e drammatici del secolo scorso. In particolare tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta, l’Italia venne sconvolta da una grande violenza di matrice politica, con scontri di piazza, omicidi e attentati terroristici, che misero a dura prova la tenuta della stessa democrazia.
Il nome con cui è stato definito questo momento storico è emblematico: “gli anni di piombo”.
La motivazione alla base era la forte polarizzazione politica: estrema destra contro estrema sinistra. Questi schieramenti possedevano degli ideali politici molto più estremisti rispetto a quelli a cui siamo abituati oggi e non avevano paura di utilizzare la violenza per contestare lo Stato e il modello sociale ed economico che disprezzavano.
L’Italia, infatti, si apprestava a diventare una vera nazione unita e, grazie al boom economico, il tenore di vita dei cittadini era notevolmente migliorato, l’analfabetismo diminuito e la mortalità infantile quasi azzerata. Al governo, dal dopoguerra, c’era la Democrazia Cristiana, appoggiata da altri partiti.
Tuttavia, erano ancora tante le cose da migliorare, e l’Italia era molto distante dalla società per come la conosciamo adesso. Fu proprio in questo periodo che iniziarono i grandi movimenti popolari di protesta, che puntavano a un cambiamento radicale della società italiana, ancora imbrigliata in una rigida divisione in classi e fondata su autoritarismo e conformismo sociale.
Questo portava inevitabilmente a ideologie opposte, accomunate dallo stesso principio di fondo: la violenza.
In particolare lo “stragismo nero”, messo in atto da forze eversive di estrema destra, per sovvertire le istituzioni repubblicane con i propri ideali neo-fascisti, utilizzarono prevalentemente attentati dinamitardi, con l’obiettivo di seminare il panico nella popolazione, creare una situazione di disordine e caos, per dimostrare che la democrazia non era in grado di mantenere l’ordine e la sicurezza in Italia, e giustificare in questo modo una svolta di tipo autoritario e l’instaurazione di un regime dittatoriale anticomunista.
Questo progetto fu portato avanti da piccoli gruppi che provenivano o avevano legami con i principali movimenti dell’estrema destra fascista, come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Ma, la cosa più grave, è che i terroristi poterono anche contare sulla complicità di alcuni apparati dello Stato, (i “servizi segreti deviati”) interessati ad alimentare con la loro azione, fatta di coperture, omissioni e depistaggi l’appoggio a una svolta autoritaria.
Dal 1969 fino ai primi anni ’80, si susseguirono una serie di stragi gravissime: diverse bombe vennero piazzate dentro le macchine, negli edifici istituzionali e nelle stazioni dei treni, causando tantissimi morti e contribuendo a creare un clima di estrema insicurezza tra la popolazione, nota anche come “strategia della tensione”.
Il più grave tra questi fu proprio la Strage di Bologna.
Quel 2 agosto 1980
A scuotere la città e l’Italia intera in un sabato mattina di agosto fu un boato improvviso, che squarciò l’aria, seguito dal silenzio e poi da urla, singhiozzi, polvere e macerie.
L’atrio della stazione centrale di Bologna si riempì di sangue e detriti.
L’esplosione investì, sulla pensilina del primo binario, anche il treno Adria Express 13534 Ancona-Basilea, in ritardo di un’ora sulla tabella di marcia.
Alle 10.25 (l’ora della tragedia rimarrà per sempre impressa nelle lancette ferme del grande orologio) l’esplosione squarciò l’ala sinistra della stazione su piazza Medaglie d’Oro: la sala d’aspetto di seconda classe, gli uffici del primo piano, il ristorante-bar-self service, in cui persero la vita sei lavoratrici. Tra le vittime anche due tassisti in attesa di clienti nel posteggio davanti all’edificio raso al suolo dallo scoppio.
Fu il più grave atto terroristico avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra, al culmine della strategia della tensione, la strage più efferata d’Italia, che colpì persone di ogni età e provenienza. La vittima più piccola fu Angela Fresu, di soli 3 anni, la più anziana Antonio Montanari, di 86 anni.
La prima ipotesi circolata sulle cause fu quella di un incidente provocato dallo scoppio di una caldaia. La versione non resse a lungo, anche perché nel punto dell’esplosione non era presente nessuna caldaia.
In poche ore a farsi largo fu la certezza dello scenario più temuto: l’attentato terroristico con una bomba ad alto potenziale.
La risposta della città fu immediata. Sanitari, vigili del fuoco, forze dell’ordine, esercito, ma anche volontari, iniziarono a scavare senza sosta tra i detriti, alla ricerca di vite da soccorrere e strappare alla morte.
Una catena spontanea che in pochissimo tempo rimise in moto una città che stava andando in ferie.
Dagli ospedali l’appello a medici e infermieri di tornare in servizio, mentre un autobus Atc della linea 37, la vettura 4030, divenne uno dei simboli di quella strage, trasformandosi in un improvvisato carro funebre che faceva la spola tra la stazione e via Irnerio, allora sede del reparto di Medicina legale, trasportando le salme, che diventavano sempre di più.
L’autista, l’imolese Agide Melloni, disse che gli “chiesero di portare via i cadaveri con il bus. Dal mattino alle tre di notte, con i lenzuoli bianchi appesi ai finestrini. Ma in ogni viaggio c’era qualche soccorritore con me, per sostenermi”.
In stazione arrivò anche il presidente della Repubblica Sandro Pertini, commosso e angosciato, mentre tutt’intorno una catena umana continuava a spostare detriti, alla ricerca di flebili lamenti.
La prima risposta di mobilitazione politica arrivò già la sera stessa, in piazza Maggiore, in cui si riunì la popolazione. Fu uno dei primi appelli alla giustizia e alla ricerca della verità.
Mentre fino a tarda notte all’obitorio, dove le celle frigo sembravano quasi non riuscire a contenere così tanti corpi, si continuava a tentare di dare un’identità ai corpi martoriati. Identità spesso affidata solo a brandelli di indumenti o di documenti, ai resti di una catenina.
I funerali delle vittime ebbero luogo il 6 agosto. Il coraggio e la prontezza con cui la comunità bolognese rispose alla strage sono le motivazioni che portarono al conferimento alla città di Bologna della Medaglia d’oro al valor civile, il 13 luglio 1981.
Chi è stato?
Per lunghi anni i familiari delle vittime della Strage di Bologna e la società civile hanno chiesto di conoscere i mandanti dell’attentato, per fare luce sull’accaduto e soprattutto per avere una giustizia, non scontata, non così prevedibile, in un’Italia in cui le stragi impunite si facevano sempre più numerose.
Per la strage di Bologna sono stati condannati in via definitiva, come esecutori materiali, gli ex militanti dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar), organizzazione terroristica italiana d’ispirazione neofascista, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini.
Ci sono voluti 40 anni ad avere finalmente quattro nomi: Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato, Mario Tedeschi. Nomi che rimarranno solo sulla carta: sono tutti morti.
Nessun processo, nessuna sentenza, nessuna condanna.
La Procura generale, che nel 2017 ha condotto l’indagine, sulla base di dossier presentati dall’associazione vittime, è arrivata alla conclusione che dietro la strage ci siano Licio Gelli, ‘”Il Venerabile” della loggia massonica P2 (Propaganda 2), in accordo con apparati deviati dello Stato, a coprire e sviare le indagini.
Gelli era infatti già stato condannato per depistaggio nei precedenti processi sulla Strage.
Avrebbe agito con l’imprenditore e banchiere legato alla P2 Umberto Ortolani, suo braccio destro (entrambi indicati come mandanti-finanziatori) con l’ex prefetto ed ex capo dell’ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato (indicato come mandante-organizzatore) e con il giornalista iscritto alla loggia ed ex senatore dell’Msi (Movimento Sociale Italiano), partito neofascista, Mario Tedeschi (indicato come organizzatore).
Da deceduti, il loro nome è stato iscritto nell’avviso di fine indagine dove si certifica il concorso con gli esecutori, cioè i Nar già condannati, Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini, i primi tre in via definitiva e l’ultimo in primo grado, dopo la sentenza all’ergastolo di gennaio.
Tuttavia c’è anche un “quinto uomo”, Paolo Bellini, altro esponente dei movimenti di estrema destra, ex Avanguardia Nazionale, finito indagato quest’anno, a 40 anni dai fatti, e con altre persone “da identificare” al centro di un ulteriore filone investigativo ancora aperto.
L’indagine che ha portato al collegamento di mandanti ed esecutori, ha visto Magistrati e Guardia di Finanza impegnati a seguire un determinato flusso di denaro.
Partito da conti svizzeri riconducibili a Gelli e Ortolani e alla fine arrivati al gruppo dei Nar, il presunto prezzo della strage sarebbe di circa cinque milioni di dollari.
Il denaro, secondo gli accertamenti, iniziò a transitare dal febbraio del 1979 agli organizzatori, fino ai depistatori.
A 40 anni da quel boato
La visita del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella è stata la prima visita di un Capo dello Stato dopo quella di Sandro Pertini, poche ore dopo la Strage.
Foto: Quirinale
Il Comune di Bologna ha ristampato il primo libro fotografico uscito nell’ottobre 1980. Il volume, donato al Presidente della Repubblica e che sarà distribuito nelle scuole e biblioteche, fu pubblicato due mesi dopo la strage e contiene 160 immagini realizzate da fotografe e fotografi che fermarono il dolore e lo strazio di quei momenti, provando a raccontare quanto non si sarebbe potuto fare solo con le parole.
La reazione potente, collettiva e unita della città, l’abnegazione dei familiari delle vittime che si sono battuti per la verità stridono enormemente con apparati dello Stato che per decenni hanno fatto sì che quella verità rimanesse sepolta sotto le macerie di quella stazione, in quell’agosto 1980.
Fonte delle foto storiche: ANSA