Oggi tutti conoscono il termine “antisemitismo” e probabilmente ognuno di noi quando lo sente pronunciare torna subito con la mente ai libri di scuola e ripensa alla Shoah, al Ventennio, a Hitler e allo sterminio di massa del popolo ebraico, consumatosi nella prima metà del Novecento. La memoria collettiva di quella tragedia che ci è stata tramandata e che tutti abbiamo studiato continua ancora oggi a proiettare in noi immagini indelebili: il cancello di Auschwitz con scritto “Arbeit macht frei”, una divisa a righe, una stella gialla cucita sui vestiti e, soprattutto, un odio profondo, viscerale, inumano.
Ciò nonostante non bisogna dimenticare che questo sentimento di ostilità nei confronti degli ebrei non è stato una macchia solo dell’ultimo secolo di storia europea, ma affonda le sue radici in una serie di comportamenti e usi che hanno avuto origine fin dalla tarda antichità e dall’inizio del Medioevo e – cosa forse più preoccupante – rischia di sopravvivere ancora oggi, anche se, fortunatamente, in forme più limitate.
Per cominciare va subito precisato che l’antisemitismo può essere suddiviso in tre tipologie diverse, ovvero religioso, razziale e culturale. Tutte e tre queste componenti sono emerse in vario modo nel corso dei secoli, qualche volta anche sovrapponendosi l’una con l’altra ed hanno contribuito a creare un quadro piuttosto variegato e complesso del problema.
L’elemento razziale è quello che forse conosciamo meglio perché ha caratterizzato la storia più recente dell’antisemitismo e, da un certo punto di vista, rappresenta l’aspetto più grave della questione, anche se ad oggi per fortuna sembra essere il meno presente nella nostra società. In qualche modo, però, l’odio per gli ebrei sopravvive in ambito religioso e culturale e molto spesso trae forza da vecchi luoghi comuni e convinzioni, che sono nati col progressivo formarsi di comunità ebraiche stabili nel cuore dell’Europa.
Se volessimo risalire fino alle prime tracce di antisemitismo di cui si abbia qualche notizia, dovremmo con ogni probabilità spingerci fino all’età romana. A Roma infatti, a partire dal primo secolo d.C. la cultura pagana dominante cominciò a percepire il monoteismo ebraico (e la stessa cosa avverrà di lì a poco per quello cristiano) come un elemento di estraneità e, potremmo dire, di assurdità. Non che nel mondo antico non fossero mai esistiti altri esempi di culto monoteista – si pensi ad esempio allo Zoroastrismo, ben conosciuto dai Greci e dai Romani, professato nell’Impero Persiano – ma la religione ebraica, con il suo forte attaccamento ad una vasta tradizione letteraria, fatta di testi giuridici, sapienziali, etici, storici e col suo rigido corpus di precetti, divieti e prescrizioni, colpì in modo particolare la sensibilità dei pagani. In questo senso potremmo dire che le prime tracce di antisemitismo siano state di natura religiosa e culturale e che abbiano avuto a che fare più con un istintivo atteggiamento di diffidenza verso un popolo straniero (che cominciava a dover essere trasferito e integrato all’interno dell’Impero), che non con un sentimento di odio vero e proprio. Come il monoteismo anche la circoncisione può essere portata ad esempio quale pratica percepita agli occhi dei Romani come elemento di estraneità culturale e cominciò a diventare un tratto distintivo delle comunità giudaiche (nonostante fosse già allora in uso da secoli anche presso altre popolazioni che abitavano le sponde orientali e meridionali del Mediterraneo).
Con l’arrivo del Medioevo l’ebraismo non sempre trovò accoglienza e rispetto all’interno del panorama politico europeo o, quanto meno, fu accettato e tollerato, ma solo a certe condizioni. In un’Europa quasi completamente cristiana agli ebrei veniva spesso imposto di sottostare a determinate regole, come per esempio l’obbligo di indossare un segno di riconoscimento – in genere un cappello di colore giallo o rosso, oppure un disco da applicare sugli indumenti – o di stabilirsi in zone ben definite dell’abitato urbano (come decretato nel Concilio Lateranense IV del 1215).
Gradualmente poi venne diffondendosi un atteggiamento di diffidenza nei confronti delle comunità ebraiche, a causa della difficoltà che esse trovavano nell’integrarsi da un punto di vista socio-culturale all’interno dei nuovi contesti in cui si insediavano. Il fatto per esempio che la religione ebraica preveda il diritto di partecipare al culto solamente sulla base della discendenza di sangue e quindi solo se il fedele è già appartenente ad una famiglia ebrea – in sostanza, ebrei si nasce e non lo si può diventare – ha contribuito a creare nel corso dei secoli un alone di elitarismo e di chiusura verso l’esterno. Tale percezione si è poi rafforzata se si considerano tutte le problematiche legate ai matrimoni misti. Un non ebreo può infatti difficilmente essere ammesso all’interno della comunità dei fedeli, dal momento che, anche se prende in sposa una donna ebrea (si tenga presente che la successione nell’Ebraismo avviene sempre per via matriarcale), non possiede comunque lo stesso background etnico, culturale e religioso.
Un altro aspetto significativo della vita delle comunità ebraiche era legato poi ai mestieri che praticavano, come ad esempio l’usura. Tale pratica consisteva nel prestito di denaro ad interesse elevato e fu sempre tassativamente vietata ai cristiani (ed era condannata anche tra i musulmani), in quanto ritenuta un peccato gravissimo, anche se poi, spostandoci cronologicamente verso l’età contemporanea, cominciò ad essere maggiormente tollerata, data anche la crescente necessità che avevano non solo i privati, ma gli stati stessi di servirsi del prestito come strumento economico. Il fatto che spesso le famiglie ebraiche avessero a che fare, per tradizione, col denaro o che i loro membri lavorassero come banchieri, prestasoldi, cambiavalute, ecc., trovava parziale spiegazione nel divieto imposto loro, ancora una volta in età romana, di possedere la terra e di dedicarsi ai mestieri artigianali.
Chiaramente questa peculiarità fece sì che nell’immaginario collettivo si consolidasse l’idea dell’ebreo attaccato al denaro, o dell’ebreo ricco che sfruttava le disgrazie delle persone per guadagnare. È chiaro che un tale clima culturale, che si acuì in età moderna, preparò già di per sé terreno fertile per la nascita e la crescita di sentimenti di odio e ostilità tra le comunità ebraiche e il resto della popolazione. La figura di Shylock ad esempio, ne Il mercante di Venezia, rivela in modo molto efficace i tratti stereotipati dell’ebreo di fine Cinquecento ed inizio Seicento. È un usuraio, che Shakespeare dipinge come un uomo avido, attaccatissimo al denaro, disprezzato dai cristiani e privo di qualsiasi scrupolo, tanto che quando Antonio, uno degli altri personaggi della commedia, rivela di non poter saldare il debito contratto con lui, egli pretende una libbra di carne del suo corpo come risarcimento.
Proprio a Venezia nel XV secolo nacque il termine “ghetto”, un’altra parola simbolo della diaspora ebraica e diventata un termine di uso comune per indicare una realtà urbana di segregazione. Con buona probabilità, in principio non aveva nulla a che fare con l’idea di isolamento, né tanto meno con la comunità giudaica, anche se la sua etimologia è controversa. Secondo alcuni studi la parola, che in dialetto veneziano era ghèto, rimanderebbe ad un nome di origine gotico-germanica che significava “strada” (gatwo, evolutosi poi nello svedese gata e nel tedesco Gasse), secondo altri invece era semplicemente un diminutivo di “borghetto”. Ma l’ipotesi più convincente sembra essere quella per cui derivi da ghetta, ossia il diossido di piombo con cui venivano affinati i metalli. La zona infatti che fu in seguito destinata ad accogliere il ghetto ebraico di Venezia era stata in origine un’importante sede di fonderie. Nel 1516 quell’area della città venne assegnata agli ebrei, già presenti a Venezia da lungo tempo e pienamente inseriti nel tessuto sociale e commerciale della città.
La scelta di raggrupparli nel sestiere di Cannaregio non fu fatta tuttavia per ragioni di odio o di presunta incompatibilità culturale, ma avvenne essenzialmente per due motivi. Per prima cosa si rivelò necessario destinare nuovi spazi abitativi al crescente numero di ebrei che giunsero a Venezia dalla fine del Quattrocento e che provenivano da varie parti d’Europa, dalle quali avevano dovuto emigrare a seguito di decreti di espulsione e di persecuzioni. Per questo si decise di creare una parte della città a loro interamente dedicata, nella quale potessero anche fare attività di culto ed edificare sinagoghe. In secondo luogo a Venezia erano già presenti realtà analoghe di “accorpamento etnico” che interessavano altre comunità di stranieri, ovvero i fondachi. Questi infatti – come il noto Fondaco dei Tedeschi o il Fondaco dei Turchi – altro non erano che degli edifici ad uso prettamente commerciale in cui tuttavia risiedevano stabilmente coloro che facevano parte di una determinata comunità e di notte, in genere, venivano chiusi, proprio come si sarebbe cominciato a fare di lì a poco col ghetto ebraico.
Venendo alle misure politiche adottate per allontanare gli ebrei dalle città o dall’intero territorio di uno stato, vanno certamente citati i decreti di espulsione che dal Medioevo in poi furono largamente utilizzati in tutta Europa, in genere come risposta al malcontento popolare, il quale, come si è capito, era spesso motivato solo da pregiudizi. Nel 1290 fu decretata l’espulsione degli ebrei dall’Inghilterra e nel 1306 dalla Francia, giusto per citare alcuni esempi. Non di rado accadeva che queste risoluzioni fossero prese a seguito di epidemie o di pestilenze, per le quali erano spesso ritenuti responsabili gli ebrei, accusati di avvelenare l’acqua dei pozzi per diffondere le malattie e punire così i cristiani. Tali dicerie si diffondevano poiché molte persone notavano che nei quartieri ebraici la mortalità in periodi di epidemia era minore, ma questo era probabilmente dovuto proprio al maggior isolamento a cui tali zone erano soggette ed anche alle norme igienico-sanitarie che per motivi religiosi gli ebrei erano tenuti a rispettare.
Un decreto che dal punto di vista culturale lasciò un segno fortissimo nella storia della Diaspora fu quello emesso dalle corone di Castiglia e Aragona nel 1492, all’indomani della Reconquista. Tale documento sanciva infatti l’obbligo di espulsione di tutti quegli ebrei che non avessero accettato di convertirsi al Cattolicesimo. Alla base c’era stato il desiderio dei Re Cattolici, Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, di impadronirsi dei cospicui patrimoni detenuti da molte famiglie ebraiche spagnole, sospettate fra l’altro di aver cospirato a danno dei cristiani durante la guerra contro Granada. L’ulteriore problema che però emerse successivamente fu quello di credere alla genuinità della conversione di coloro che erano rimasti, i cosiddetti conversos (“convertiti”), nei confronti dei quali l’Inquisizione spagnola mantenne sempre il sospetto di cripto-giudaismo.
Proprio dal modo in cui venivano chiamati gli ebrei falsamente convertiti deriva un termine che è entrato nel linguaggio comune per indicare un atteggiamento vile e scorretto: marrano, che in spagnolo significa “porco”. In realtà, come dimostrato da alcuni studi fatti su fonti rabbiniche dell’epoca, nelle comunità ebraiche era molto difficile che fossero accettati dei fedeli che, per motivi di convenienza sociale o per non dover emigrare, avevano rinnegato formalmente il proprio credo. Di conseguenza è assai verosimile che coloro che avevano scelto di mantenere la propria intima fede, decidessero di lasciare la Penisola Iberica.
Con il Settecento, la Rivoluzione Francese e l’età napoleonica furono prese consistenti misure per limitare e, in alcuni casi, eliminare, tutte le discriminazioni civili, sociali e religiose che gravavano sulle comunità ebraiche presenti in Europa. Fu invece a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento che il sentimento antisemita tornò nuovamente a circolare con forza nel vecchio continente.
L’Affaire Dreyfus fu forse l’episodio più indicativo di questa nuova ondata di odio nei confronti degli ebrei. Alfred Dreyfus era stato capitano di Stato Maggiore nell’esercito francese e nel 1894 fu accusato di spionaggio a favore della Germania e di alto tradimento. Ritenuto colpevole, sulla base di prove false, venne condannato al carcere a vita. Solo in seguito la condanna fu ridotta a dieci anni. Lo scandalo che lo coinvolse scaturì dal fatto che gli alti comandi francesi avevano indicato lui come capro espiatorio, spinti esclusivamente dall’odio per le sue origini ebraiche e sostenuti in questo da certa parte della stampa di allora. Celebri erano stati i tentativi di difenderlo fatti da alcune personalità di spicco del mondo artistico e culturale parigino, come ad esempio Émile Zola, che proprio in quell’occasione scrisse il celebre J’Accuse.
Infine durante tutto il Novecento cominciò a circolare e a prendere corpo il pensiero per cui gli ebrei fossero stati i veri responsabili prima della nascita del Socialismo e del Comunismo e poi dello scoppio della Rivoluzione Russa. Il padre di Marx era infatti nato ebreo e si era poi convertito al Luteranesimo, e personaggi come Rosa Luxemburg, fondatrice del Partito Comunista Tedesco, Lev Trockij e lo stesso Lenin erano tutti di origini ebraiche.
Fu proprio questo sospetto, unito ad altre convinzioni diffusesi tra la popolazione e in alcuni casi anche tra le élites culturali dell’epoca, che fece crescere l’odio di matrice culturale e religiosa e lo fece sfociare in odio razziale, aprendo così la via nella Germania nazista e nell’Italia fascista, a quello che ancora oggi è ricordato come il peggior genocidio della Storia.