Da alcuni anni i rapporti tra Italia ed Egitto tornano spesso sotto i riflettori.
Fra i temi più caldi che hanno acceso il dibattito pubblico italiano figurano il caso Regeni, l’imprigionamento di Patrick Zaky e la recente autorizzazione di vendita di navi militari italiane alla marina egiziana.
Temi estremamente controversi, su cui è necessario fare chiarezza cercando prima di tutto di capire che Paese sia l’Egitto, ed analizzando poi questi casi nel più ampio contesto dei rapporti italo-egiziani.
Un passo indietro
La Repubblica Araba d’Egitto, con i suoi 100 milioni di abitanti, è il Paese più popoloso del mondo arabo. Situata sulla sponda sud del Mare Nostrum, si trova sul doppio crocevia che lega il Nord Africa all’Asia attraverso il Sinai, e il Mediterraneo all’Oceano Indiano tramite Canale di Suez e Mar Rosso.
A partire dal colpo di stato del 1952, il Paese è stato quasi ininterrottamente governato da regimi militari. Dopo una breve parentesi “democratica” all’indomani della rivoluzione egiziana del 2011 – nel contesto delle c.d. “Primavere Arabe” – il potere è presto tornato in mano ai militari, con il generale Abdel Fattah Al-Sisi, oggi presidente in carica dal 2013.
L’Egitto è da sempre considerato uno dei cosiddetti “Paesi arabi moderati”. Una “moderazione” che non gli viene di certo riconosciuta per sua apertura e democraticità, bensì per il fatto di aver continuamente represso – spesso con la forza – le organizzazioni islamiste presenti nel paese, non solamente quelle jihadiste radicali, ma anche le più “moderate”, come l’organizzazione della Fratellanza Musulmana.
Essendo stato inoltre il primo Paese arabo ad aver riconosciuto lo Stato di Israele nel 1979, svolge un ruolo fondamentale nel processo di pace in Medio Oriente, e può presentarsi come un partner affidabile dell’occidente nella regione.
Questi ed altri elementi hanno da sempre permesso all’Egitto di godere delle attenzioni speciali di molte potenze esterne – Italia compresa – che hanno spesso chiuso più di un occhio sulle numerose violazioni dei diritti umani del regime egiziano.
I rapporti italo-egiziani
Roma ed il Cairo godono da lungo tempo di ottimi rapporti bilaterali. L’Italia è oggi il primo partner commerciale dell’Egitto fra i paesi europei, e il terzo nel mondo.
Nel 2015, dopo la scoperta dell’enorme giacimento di gas naturale a Zohr (considerata la più grande mai effettuata nel Mediterraneo), i rapporti sono divenuti ancora più intensi. La gestione di tali pozzi infatti è stata affidata ad ENI, e l’Italia ha acquisito un asset strategico di grande rilevanza, considerando il forte fabbisogno energetico del Bel Paese e la costante necessità di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento.
Sul piano geopolitico, le posizioni italiane ed egiziane non sono sempre coincidenti: se i due Paesi possono ritenersi “compagni di squadra” nella partita di contenimento delle ambizioni marittime turche nel Mediterraneo Orientale, si posizionano invece su due fronti diametralmente opposti nel conflitto civile libico, dove l’Italia sostiene il governo di Al-Serraj a Tripoli, mentre l’Egitto è fra i principali sponsor dell’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar.
L’arresto di Patrick Zaky
A minare ulteriormente la scarsa popolarità dei rapporti italo-egiziani è intervenuta a inizio 2020 la vicenda dell’arresto di Patrick Zaky. Il giovane studente egiziano è un impegnato attivista della Eipr (Egyptian Initiative for Personal Rights), un’organizzazione indipendente egiziana per i diritti umani.
Molto legato all’Italia – dove ha frequentato un Master all’Università di Bologna – Patrick era di ritorno in Egitto per una breve vacanza. Il 7 febbraio 2020 venne fermato dalla polizia egiziana all’aeroporto del Cairo, scomparendo per le successive 24 ore.
Dopo intensi interrogatori, Patrick riapparve in pubblico nella procura di Mansoura, che gli contestava i reati di “istigazione alla protesta e di propaganda di terrorismo sul proprio profilo Facebook”. I suoi legali hanno in seguito riferito che il giovane mostrava segni di torture ed elettroshock.
Ad oltre sette mesi dalla data del suo arresto, Patrick si trova attualmente in detenzione in attesa di giudizio nella tristemente nota prigione di Tora, alla periferia del Cairo, dedicata a chi è colpevole dei cosiddetti “reati di coscienza”. L’imprigionamento di Zaky ha riportato l’attenzione dei media sulla situazione dei diritti umani in Egitto, sulle opache relazioni italo-egiziane, e soprattutto sulla ferita più profonda apertasi nei rapporti fra i due paesi: il caso Regeni.
Il caso Regeni
Il giovane Giulio Regeni, dottorando presso l’Università di Cambridge, si trovava al Cairo per condurre una ricerca sui sindacati indipendenti egiziani. Un tema abbastanza spinoso in un regime autoritario. La sua attività sul campo gli fece guadagnare ben presto l’attenzione degli apparati di sicurezza locali. La sera del 25 gennaio 2016 si persero i contatti con Giulio ed il 4 febbraio il suo corpo senza vita e brutalmente percosso venne ritrovato lungo l’autostrada Cairo-Alessandria.
Da lì in poi le autorità egiziane si sono dimostrate scarsamente disponibili a cooperare, adducendo prima ricostruzioni improbabili sull’accaduto, e ostacolando poi le indagini italiane. Sull’uccisione di Regeni rimangono ancora ogginumerose ombre. La famiglia Regeni assieme a numerose associazioni per i diritti umani continua a mantenere vivo il ricordo di Giulio, e a chiedere al Governo di arrivare alla verità sulla sua morte.
Ma la strada per la verità è tutta in salita.
Un vecchio dilemma: interessi materiali o principi morali?
In Egitto – come in molti altri regimi autoritari – rapimenti, torture ed uccisioni sono la brutale routine quotidiana con cui le autorità sopprimono ogni tipo di opposizione, per assicurare la stabilità interna del regime. Le prime vittime di questa macchina di repressione sono i cittadini egiziani stessi.
Chiedere al regime di Al-Sisi di consegnare in mano all’Italia i responsabili di tali crimini e di condannare pubblicamente le atrocità dei propri apparati è una richiesta a cui nessun regime potrebbe mai permettersi acconsentire, se non al costo di mettere seriamente in discussione la propria stabilità interna.
Gli strumenti in mano all’Italia per costringere il Cairo a compiere tale “autogol”, inoltre, sono abbastanza scarsi. Sebbene in crescita negli ultimi anni, è difficile credere che l’influenza politico-economica italiana sia divenuta tale da poter costringere Al-Sisi a mettere a repentaglio la stabilità del proprio regime.
D’altro canto, l’interruzione netta di ogni rapporto con l’Egitto sarebbe una soluzione irrazionale e dannosa per gli interessi italiani: una scelta che nessun decisore politico italiano sarebbe disposto a compiere, e gli egiziani lo sanno. Ed è questo il dilemma di fronte al quale si è ritrovato ogni governo italiano dal 2016 ad oggi: la scelta fra principi morali ed interessi materiali.
La risposta a tale dilemma però non sembra essere andata nel verso dei principi morali: messo da parte il caso Regeni, i rapporti italo-egiziani hanno trovato una rinnovata intensità, soprattutto in un settore assai controverso: la vendita di armi.
Non solo fregate
Due Fregate, 24 cacciabombardieri Euro Fighter e 24 aerei addestratori M346: fanno parte della “commessa del secolo” – come l’ha definita La Repubblica a maggio – e rappresentano solo una parte di un’intesa ben più ampia, che Middle East Monitor qualche mese prima stimava ammontare ad oltre 9 miliardi di dollari.
Nonostante il caso Regeni, negli ultimi anni Italia ed Egitto hanno visto impennare il loro volume di affari perarmamenti. Secondo un report della Rete Italiana per il Disarmo, nel 2019 il primo posto nella classifica per autorizzazioni alla vendita di armi italiane se lo è aggiudicato proprio l’Egitto, con un volume di vendita di 879 milioni di dollari in armamenti. E pensare che appena un anno prima nel 2018, Il Cairo occupava la terza posizione di questa classifica, con autorizzazioni per 69 milioni. Nel 2017 invece la cifra autorizzata ammontava ad appena a 7,4 milioni.
Nel dibattito italiano ha trovato particolare risonanza la notizia dell’autorizzazione alla vendita di due fregate FREMMprodotte da Fincantieri, annunciata dal governo l’8 giugno scorso, dopo una conversazione telefonica avvenuta fra Giuseppe Conte ed Al-Sisi il giorno precedente.
Esattamente due giorni dopo, sotto la pressione dell’opinione pubblica, il Ministro degli Esteri Di Maio ha fatto un passo indietro sull’accordo, che si è affrettato a dichiarare “non ancora approvato”. L’azienda italiana Fincantieri, interrogata dai media sul tema, ha preferito non rilasciare dichiarazioni.
Se dal punto di vista morale la vendita delle due navi è stata oggetto di forti contestazioni, anche sul piano geopoliticol’affare ha sollevato forti perplessità fra gli esperti. Dario Fabbri, analista di Limes, ha commentato la vicenda ad “Omnibus” su La7 chiedendosi retoricamente quale senso possa avere rafforzare sul piano militare un avversario diretto nella partita libica. L’unico modo per provare a dare un senso all’affare, secondo Fabbri, è quello di inquadrarlo nel contesto di una partnership più ampia, grazie alla quale Roma svilupperà ulteriori progetti economici con il Cairo, e di cui la vendita delle fregate potrebbe essere solo una parte.
Conclusione
I temi scottanti delle relazioni italo-egiziane ritorneranno sicuramente ad infiammare il dibattito pubblico in Italia, ma è difficile che possano interrompere il trend di ritrovata intesa d’affari fra Roma e il Cairo.
L’aspetto più discutibile della vicenda tuttavia è senz’altro questa strana “Realpolitik all’italiana” che – almeno in teoria – dovrebbe subordinare le questioni “morali” momentanee a favore del perseguimento di interessi strategici di lungo periodo, ma il cui risultato pratico invece è lo scontento dell’opinione pubblica e la contraddizione di buona parte degli imperativi strategici che si vorrebbero perseguire.
Articolo a cura di Leonardo Trento per Orizzonti Politici