Conseguenze ecologiche dell’uso delle protezioni individuali

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Il Covid-19, che ha colpito tutti i Paesi del mondo, non ha danneggiato e minacciato solamente la salute degli uomini, ma, dopo alcuni mesi dalla sua esplosione, ha iniziato ad avere effetti collaterali anche sull’ambiente.

 

Ma in che senso?

 

È vero, durante la pandemia abbiamo sentito e letto della diminuzione delle emissioni inquinanti : il virus, infatti, bloccando la vita quotidiana e le attività umane ha apportato dei miglioramenti sia all’ambiente sia alla vita di alcune specie animali.

Il graduale ritorno alla normalità, oltre che all’incremento inevitabile dell’inquinamento atmosferico, ci sta ponendo di fronte ad un ulteriore problema: lo smaltimento non corretto dei dispositivi di protezione individuale (mascherine e guanti), fatto che sta generando e genererà effetti devastanti sull’ambiente.

Nella Fase 2, quella della convivenza con il virus, è diventato obbligatorio in tutte le regioni utilizzare le mascherine nei luoghi chiusi e in tutte le situazioni in cui non è possibile mantenere la distanza di sicurezza. In alcune regioni le mascherine devono essere adoperate anche all’esterno, comportando un utilizzo ancora maggiore delle stesse. Secondo uno studio condotto dal Politecnico di Torino, in Italia servirebbero almeno 1 miliardo di mascherine e mezzo miliardo di guanti monouso al mese. 

E che fine fanno queste protezioni quando non sono più utilizzabili?

I danni ambientali più gravi non sono tanto ricollegabili al corretto smaltimento dei dispositivi di protezione, quanto all’abbandono incivile nell’ambiente delle mascherine e dei guanti monouso. Una parte dei materiali usa e getta, infatti, viene abbandonata fuori dalle abitazioni o in mezzo alla natura.

L’allarme è stato lanciato da molte associazioni di protezione ambientale tra cui Legambiente, Greenpeace e WWF.

 

Quali sono i rischi?

 

Lo smaltimento non corretto delle mascherine e dei guanti comporta due grandi rischi: quello ambientale e quello sanitario. Quando si parla dei DPI, infatti, ci si riferisce generalmente a del materiale infetto che andrebbe smaltito nell’indifferenziato o nei rifiuti speciali. 

 

Impatto ambientale

 

I DPI (dispositivi di protezione individuale) sono fatti di poliestere e prolipropilene, un materiale plastico, difficilmente biodegradabile. Questo materiale si scompone lentamente in micro-plastiche, che possono essere trasportate nei fiumi, nei laghi e nei mari (come già sta avvenendo) dal vento o dagli animali stessi, contribuendo così alla contaminazione della biodiversità marina. L’ONG Francese Opération Mer Prope ha sottolineato che, se anche solo l’1% dei DPI non fosse smaltito nel modo corretto, ogni mese solo in Italia ci sarebbero all’incirca 10 milioni di mascherine e guanti dispersi nella natura. “Inoltre, ogni mascherina pesa all’incirca 4 grammi e ciò comporterebbe la dispersione in natura di almeno 40 mila grammi di plastica”.

Un altro elemento da tenere in considerazione è che spesso i DPI vengono trattati con alcune sostanze chimiche, come l’acido perfluoroottanoico (PFOA), un repellente che è stato vietato a livello globale (fatta eccezione per i dispositivi sanitari) dalla Conferenza di Stoccolma per la sua tossicità e per la sua capacità di dispersione. Un altro prodotto chimico utilizzato per trattare i guanti monouso sono gli ftalati, che, quando vengono inceneriti, rilasciano inquinanti molto tossici e pericolosi come le diossine, particolarmente pericolose per il suolo e le falde acquifere.

 

Un esempio: le spiagge ad Hong Kong

 

Ci troviamo a Soko, al largo della costa sud occidentale dell’isola di Lantau. Qui un gruppo di ricercatori dell’Associazione Oceans Asia ha già prelevato centinaia di mascherine relativamente nuove dai fondali, che presumibilmente si trovano lì da non troppo tempo. Ponendo che i cittadini di Hong Kong (ossia più di 7 milioni di persone) utilizzino almeno due/tre mascherine a settimana a testa, e considerato il secondo lockdown al quale sono stati sottoposti e che quindi li obbligherà a mantenere precauzioni per molto, è facile dedurre come, nel giro di poco tempo, i fondali potrebbero essere presto ricoperti da corpi estranei inquinanti, se questi non venissero smaltiti correttamente.

Naomi Brannan – Oceans Asia

 

Quindi: come smaltire correttamente i dispositivi di protezione individuale?

 

L’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato le indicazioni necessarie per la gestione dei rifiuti urbani in relazione alla trasmissione dell’infezione da virus SARS-COV-2. 

Il primo passo da fare è distinguere i DPI prodotti da:

  1. soggetti positivi al tampone o in quarantena obbligatoria;

  2. dalla popolazione in generale che non vive con soggetti positivi al tampone.

Nel primo caso, secondo il DPR 254/03, questi rifiuti devono essere considerati rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo.

Ciò vuol dire che questi rifiuti sono equivalenti a quelli generati in una struttura sanitaria.

I DPI dovrebbero essere raccolti, in idonei imballaggi a perdere, da aziende specializzate nello smaltimento di rifiuti speciali. Quando non ci si può mettere in contatto con aziende specializzate nel settore, si raccomanda di raccogliere tutti i rifiuti domestici nell’indifferenziata perché non possono essere riciclati. Inoltre, bisogna confezionare i rifiuti in modo tale da evitare fuoriuscite.

Nel secondo caso, quindi per i soggetti negativi al tampone che non vivono con persone infette, si raccomanda di continuare a seguire la raccolta differenziata in vigore nel proprio territorio. 

 

Le istruzioni ci sono: rispettiamole per rispettare la nostra Terra. Donatella Bianchi, presidentessa del WWF Italia: 

“non possiamo correre questo rischio. Intanto facciamo leva sulle responsabilità individuali. Tutti noi poniamoci questo problema e facciamo la cosa giusta. Poi insieme spingiamo affinché si facciano le scelte giuste. Noi dovremo convivere, temo, con queste mascherine per un lungo periodo e tutto questo non si può tradurre nell’ennesimo disastro ambientale”.

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