Come è nato il conflitto in Yemen?

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Lo Yemen sta oggi vivendo la crisi umanitaria più grave degli ultimi 100 anni. Con una guerra in stallo da anni, le alluvioni e la diffusione del Covid-19 che si aggiunge al colera e ad altre epidemie che non si riescono a contenere, la situazione dei cittadini yemeniti è in continuo peggioramento: l’economia è ferma e c’è difficoltà nel reperire viveri e medicinali.

 

Il lungo conflitto che attanaglia il Paese

 

Per comprendere appieno cosa sta succedendo in Yemen e le ragioni che stanno dietro al conflitto che affligge la popolazione civile da anni, è necessario partire dalla sua storia.

Dal 1962 fino al 1990, lo Yemen era diviso in due nazioni distinte: da un lato vi era la Repubblica Araba dello Yemen con a capo Ali Abdullah Saleh che deteneva un governo autoritario; dall’altro vi era la Repubblica Democratica popolare dello Yemen, presieduta invece da un governo di stampo marxista.

 

Nel 1990 i due Stati si unirono per formare l’attuale nazione yemenita, ma ben presto nel sud del Paese cominciarono a svilupparsi diversi movimenti indipendentisti.

Una volta raggiunta l’unificazione, Saleh (che fino a quel momento era a capo della Repubblica del Nord) prese il comando sull’intero territorio. Egli rimase al potere fino al 2011, quando le cosiddette “Primavere arabe” si diffusero anche in Yemen, segnando l’inizio di una lunga e complessa transizione politica supervisionata dai Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (tra cui Oman, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrein, Arabia Saudita).

 

A seguito delle dimissioni di Saleh, che aveva perso l’appoggio di gran parte della popolazione, venne eletto un nuovo Presidente: Abdel Rabbo Monsour Hadi. La sua elezione ebbe particolare importanza, perché fu appoggiata dai sauditi e riconosciuta dalla comunità internazionale.

 

Il mandato di Hadi, secondo un accordo sottoscritto con il Consiglio di Cooperazione del Golfo, aveva carattere transitorio: era prevista una durata di due anni durante i quali il Presidente avrebbe dovuto creare un governo e scrivere una nuova Costituzione. Tuttavia, il neo Presidente non riuscì a raggiungere nessuno di questi obiettivi, motivo per cui il suo mandato venne prolungato di un anno. Ciò scaturì l’ira di gruppi di opposizione e degli Houthi, un movimento politico-religioso nato nel nord del Paese negli anni ’80: un gruppo sciita zaydita (di cui fa parte circa il 35% della popolazione musulmana) che regnò nello Yemen del nord fino alla rivoluzione del 1962, in seguito alla quale nacque la Repubblica Araba dello Yemen che marginalizzò gli zaydi a favore della componente sunnita.

 
 

L’inizio degli scontri e l’avanzata degli Houthi

 

Già dai primi mesi di tensione all’interno del Paese, il movimento degli Houthi riuscì ad unire il fronte sciita nella lotta al governo. La loro principale preoccupazione, da allora, ha sempre riguardato la crescente influenza dei sauditi in territorio yemenita.

Nel 2014 cominciarono le prime proteste di massa guidate dagli Houthi che, godendo, di ampio sostegno popolare, riuscirono a conquistare numerose città a maggioranza sciita, peraltro in poco tempo. Nel settembre dello stesso anno, quando il movimento ribelle entrò nella capitale Sana’a (senza riuscire, tuttavia, a spodestare Hadi) si ebbe la vera svolta: entrarono in gioco le Nazioni Unite, facendo pressioni perché si cessasse il fuoco e chiedendo un accordo tra le due parti che prevedesse, tra le altre cose, un governo di unità nazionale. I tentativi di dialogo si dimostrarono tuttavia inefficaci e, anzi, gli scontri continuarono.

 

A complicare ulteriormente la situazione si aggiunse la ricomparsa di Saleh, il cui intento era quello di sabotare l’accordo dal quale era stato estromesso: propose quindi un patto segreto agli Houthi, che accettarono perché videro, attraverso l’accordo con l’ex Presidente, la possibilità di avvicinarsi alle alte sfere dell’esercito e di influenzarle.

 

Il successo della rapida avanzata degli Houthi è dovuto al legame che intercorre tra loro e il governo iraniano, che negli ultimi anni ha fornito assistenza militare e finanziaria. Dal canto suo, l’intento iraniano è chiaramente di espansione della propria influenza all’estero.

Il patto con Saleh e l’alleanza con le alte sfere dell’esercito permisero agli Houthi di mettere in atto un colpo di stato nel gennaio del 2015, che ebbe come conseguenza una spaccatura del Paese: gli Houthi si appropriarono della capitale, Hadi diede le sue dimissioni ma rimase formalmente Presidente e spostò il suo governo al sud.

 

Con questo tentativo degli Houthi di presa della città di Aden, i sauditi decisero di intervenire a sostegno del Presidente Hadi, nel tentativo di mantenere lo status quo e la propria influenza sul Paese.

 
 

La coalizione saudita

 

L’Arabia Saudita divenne promotrice di una coalizione, appoggiata anche dagli Stati Uniti, formata da 9 Paesi: gli Emirati Arbi Uniti, il Qatar, il Kuwait, il Bahrein, l’Egitto, la Giordania, il Marocco e il Sudan. A mancare all’appello è l’Oman, che decise di rimanere neutrale. Attualmente l’Egitto e il Qatar non fanno più parte della coalizione e anche il Sudan medita sull’uscirne: i principali attori in gioco, dunque, rimangono gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita.

 

L’obiettivo dei sauditi in Yemen non è semplicemente di ripristino di un governo a loro favorevole: il loro intervento possiede in realtà un carattere fortemente anti-iraniano, in quanto l’Iran è un nemico storico con cui lo Yemen si scontra da anni nei principali scenari di conflitto in Medio Oriente, in quanto Paese a maggioranza sciita.

Viceversa, anche l’intervento iraniano è interpretato quasi esclusivamente in chiave anti-saudita: l’Iran non ha perso occasione per aumentare le pressioni al confine tra Arabia Saudita e Yemen fornendo supporto ai ribelli Houthi.

 

D’altra parte, il coinvolgimento degli Emirati Arabi nel conflitto mira a contrastare la minaccia

rappresentata dalla Fratellanza Musulmana (un’organizzazione islamista dichiarata fuorilegge da diversi Paesi arabi tra cui gli Emirati) e a curare i propri interessi commerciali, essendo lo Yemen strategico da questo punto di vista. Le coste al sud del Paese sono considerate infatti la chiave per la politica estera emiratina, che ha sviluppato un forte interesse per l’Oceano Indiano e il Corno d’Africa.

 

La coalizione saudita non ebbe tuttavia particolare successo nel tentativo di frenare il movimento degli Houthi. Dopo anni di conflitti i guadagni territoriali da parte dei sauditi restano pochi, e al contrario sono aumentati il numero di caduti e le perdite anche in termini di mezzi militari. Aden fu l’unica città in cui gli scontri si mostrarono a favore dei sauditi, grazie anche alla partecipazione delle milizie separatiste del sud. Hadi, infatti, la scelse come capitale provvisoria dello Yemen.

 
 

Il terrorismo legato al conflitto yemenita

 

Al Qaeda è il gruppo che ha maggiormente approfittato della drammatica situazione in Yemen. Il gruppo è presente da tempo sul territorio, ma la sua presenza si è intensificata in particolar modo tra il 2015 e il 2017 nella parte centrale ed orientale del Paese. Inoltre, tra il 2016 e il 2017 anche l’ISIS ha fatto la sua comparsa in Yemen, in zone poco controllate e inabitate. I due movimenti non sono alleati ma entrambi hanno acquisito diversi territori.

Questa avanzata desta particolare preoccupazione poiché, in un Paese dilaniato dagli scontri e allo stremo a causa dei continui conflitti sia militari che politici, il terrorismo islamico gode di ottime possibilità per insediarsi nel territorio yemenita e, conseguentemente, nella sua società.

 

La fine dell’alleanza tra Saleh e gli Houthi

 

Nel 2017, dopo un lungo stallo, l’ex Presidente yemenita ruppe la sua alleanza con gli Houthi dichiarandosi disposto ad attivare un tavolo di negoziati con l’Arabia Saudita. Tuttavia, molte delle forze legate a Saleh decisero di non sciogliere l’alleanza con il movimento degli Houthi, nonostante l’invito dell’ex Presidente ad aderire alle sue nuove volontà.

Gli Houthi optarono quindi per un attacco diretto al quartier generale, costringendo così Saleh ad allontanarsi dalla capitale. Il tentativo di fuga non ebbe comunque successo: Saleh venne ucciso da un cecchino poco fuori Sana’a.

 

L’uscita di scena di Saleh provocò un vero e proprio contraccolpo: i sauditi riuscirono a portare avanti, anche se di poco, la propria avanzata militare mentre gli Houthi sembrarono arrancare e porsi sulla difensiva.

Questo fu particolarmente evidente nella città di Hodeidah, che per anni rimase sotto il controllo della milizia sciita e che era quindi nel mirino delle forze saudite, le quali avevano organizzato la più importante operazione via terra per conquistarla. Hodeidah godeva di grande rilevanza, a livello strategico, militare e civile: è infatti il principale porto dello Yemen del nord dal quale arrivano gran parte degli aiuti umanitari ed è il punto in cui parte l’autostrada per Sana’a.

 

L’offensiva su Hodeidah ebbe carattere decisivo: anche in questa occasione gli Houthi ebbero la meglio (anche se con qualche difficoltà). A dicembre 2018 si tennero poi dei colloqui preliminari di pace, per cercare di porre fine al conflitto. Si svolsero in Svezia e al centro della discussione vi furono questioni quali: lo scambio di prigionieri, l’apertura di corridoi umanitari e il ritiro delle forze belligeranti dalla città di Hodeidah. Si posero le basi per la cessazione del fuoco.

 

L’accordo di Riad

 

In seguito, il 5 novembre 2019 venne stipulato un accordo tra il governo internazionalmente riconosciuto di Hadi e i secessionisti meridionali del Southern Transitional Council (Stc), che prese il nome di “Riyadh Agreement”.

L’intesa prevedeva la creazione di un nuovo governo guidato dal Presidente Hadi, in cui sarebbero dovute confluire entrambe le forze in contrasto, e che avrebbe dovuto avere capitale ad Aden. Il documento disponeva, inoltre, di alcune clausole secondo le quali i ministri sarebbero stati scelti tramite consultazioni tra le due forze e sotto la supervisione saudita. L’accordo sembrava offrire una posizione dominante all’Arabia Saudita sul territorio yemenita, che avrebbe potuto così ricompattare il fronte anti-Houthi.

 

Nonostante si pensasse che l’accordo avrebbe potuto rappresentare la fine del conflitto in Yemen, in realtà non riuscì a risolvere nessuna delle problematiche che tutt’ora attanagliano il Paese. In questo senso, un esempio lampante è rappresentato dall’attacco risalente al 14 settembre 2019, in cui vennero colpiti gli impianti petroliferi di Abqaiq e Khurais per mano degli Houthi, in territorio saudita.

Inoltre, l’Arabia Saudita ha dovuto far fronte ad un peggioramento delle relazioni con il Marocco e ha sperimentato crescenti divergenze con gli Emirati Arabi Uniti, peggioramento palesatosi proprio in Yemen: territorio dove i due Paesi hanno interessi diversi e hanno appoggiato attori rivali. Gli stessi attori che l’accordo di Riyadh aspira a ricomporre sotto la guida saudita.

 

Il 25 aprile scorso, il Southern Transitional Council ha proclamato l’autogoverno secessionista nella città di Aden, capitale provvisoria del governo, nonché nei territori sud-occidentali controllati dalle milizie a lui affiliate. Una scelta dettata dai fallimenti amministrativi del governo nonché dalla mancata applicazione dell’accordo.

La situazione drammatica che vivono i civili

 

In questo scenario di forte instabilità politica, sono i civili a pagare le peggiori conseguenze.

Già prima del conflitto, lo Yemen era uno dei Paesi più poveri del mondo arabo. Ora, con una guerra in stallo da anni, la situazione dei cittadini yemeniti è in continuo peggioramento: l’economia è ferma, c’è difficoltà nel reperire viveri e medicinali.

Dal 2015 ad oggi il numero di persone in Yemen che sono malnutrite e muoiono di fame è in continuo aumento, motivo per cui la crisi umanitaria in atto nel Paese è definita come una delle più catastrofiche degli ultimi anni. Il blocco da parte dei paesi arabi all’arrivo di qualsiasi rifornimento e medicinale sta portando circa 7 milioni di yemeniti alla fame. Fame ed epidemie si sono trasformate in una vera e propria arma d’assedio, utilizzata per convincere i ribelli Houthi a cedere.

 

I media a livello internazionale, tuttavia, sembrano non curarsi delle condizioni disumane in cui vive la maggior parte della popolazione.

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